Fiscal Compact: uno dei temi più ricorrenti del dibattito politico.
Ma in cosa consiste veramente? Davvero l’Italia dovrà fare tagli alla spesa per 50 miliardi di euro ogni anno per i prossimi 20 anni?
Partiamo dall’inizio.
A causa della discriminazione dei vari debiti sovrani (titoli di stato) europei, dovuta alla scarsa affidabilità di diversi paesi dell’eurozona, si è creata una grande spaccatura tra i paesi cosiddetti virutosi, come Germania, Olanda, ecc. e quelli meno virtuosi, come Spagna, Italia e altri. Questo ha comportato molti problemi alla stabilità dell’UE nel suo complesso.
Il secondo semestre del 2011 ed il primo del 2012 è stato il periodo più complicato nella storia dell’euro e di tutta l’Unione Europea. Le economie di molti paesi facenti parte dell’Unione Europea, soprattutto quelle mediterranee, sono state messe in difficoltà dalla crisi. Costrette a indebitarsi fortemente, per fare fronte ai loro bilanci e gravati da scarse entrate fiscali, queste economie, non hanno potuto fare altro che pagare interessi sempre più elevati agli investitori per far si che questi comprassero i loro titoli. La crescita degli interessi unita alla crisi persistente, aveva portato a dubitare, in alcuni casi, che quei debiti potessero essere mai ripagati. La Grecia, probabilmente lo stato messo peggio in questa situazione, fu costretta a fare un parziale default. Ha dovuto rinegoziare le condizioni del suo debito, e l’Europa ha concesso due prestiti da centinaia di miliardi di euro per evitargli la bancarotta; allo stesso modo la Spagna, il Portogallo e Cipro ebbero bisogno dei soldi della comunità europea per uscirne indenni.
Il rischio domino era dietro l’angolo perchè il deteriorarsi delle condizioni di un paese ne condizionava altri e il rischio della scomparsa dell’euro era stata paventata da diversi economisti anche molto stimati.
Nasce così il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione Europea, cosiddetto Fiscal Compact, firmato da 25 paesi il 2 marzo 2012. Si tratta di un accordo tra i paesi europei che stabilisce una serie di norme comuni e una serie di vincoli di natura economica che persegue l’obbiettivo di contenere il debito pubblico nazionale di ciascun paese; nel linguaggio comune tale iniziativa è diventata sinonimo di austerità e ha comportato la cessione di una parte della sovranità economica di ogni paese a un ente sovranazionale, l’Unione Europea.
Il Fiscal Compact non fu una novità: i sui predecessori più importanti furono il Trattato di Maastricht, entrato in vigore l’1 novembre 1993, in cui erano contenuti i cinque criteri che ogni paese avrebbe dovuto soddisfare per adottare l’euro, tra cui un rapporto fra deficit (disavanzo annuale di uno stato) e il prodotto interno lordo (PIL) non superiore al 3 per cento e un rapporto fra debito complessivo e PIL non superiore al 60 per cento e il Patto di stabilità e crescita, sottoscritto nel 1997, in cui l’Unione si dotò degli strumenti per inviare avvertimenti e applicare sanzioni agli Stati che non avessero rispettato i vincoli imposti nel 1993.
Il Fiscal Compact fu firmato dai 17 paesi che all’epoca facevano parte dell’eurozona (dall’1 gennaio 2014 si è aggiunta la Lettonia, che lo aveva già firmato), che cioè utilizzano l’euro come moneta corrente, vale a dire Austria, Belgio, Cipro, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovacchia, Slovenia, Spagna. È stato anche firmato dai 7 altri membri dell’Unione Europea non appartenenti all’eurozona, cioè Bulgaria, Danimarca, Lituania, Ungheria, Polonia, Romania, Svezia. Non è stato firmato da Gran Bretagna e Repubblica Ceca.
Cosa prevede il Fiscal Compact?
Il trattato prevede diverse cose, le più importanti sono quattro:
– inserimento del pareggio di bilancio (vale a dire un sostanziale equilibrio tra entrate e uscite) di ciascuno Stato in «disposizioni vincolanti e di natura permanente, preferibilmente costituzionale» (in Italia fu inserito nella Costituzione con una modifica all’articolo 81, approvata nell’aprile del 2012);
– vincolo dello 0,5 di deficit “strutturale”, quindi non legato a emergenze, rispetto al PIL;
– obbligo di mantenere al massimo al 3 per cento il rapporto tra deficit e PIL, già previsto da Maastricht;
– per i paesi con un rapporto tra debito e PIL superiore al 60% previsto da Maastricht, obbligo di ridurre il rapporto di almeno un ventesimo all’anno, per raggiungere quel rapporto considerato “sano” del 60%.
In Italia il debito pubblico corrisponde a 2.168 miliardi di euro (ottobre 2014), e pesa per il 136,7% del PIL. Per quei paesi che sono sotto la soglia del 3 per cento nel rapporto tra deficit e PIL, come l’Italia, i controlli su questo vincolo inizieranno nel 2016.
Riflessioni
Perchè il 3%? perchè non il 2 o il 4? il vincolo del 3% è una restrizione molto rigida che potrebbe essere facilmente sostenibile in una situazione economica in espansione ma che diventa devastante in una situazione di crisi come quella attuale. Una azienda che compete sui mercati ha bisogno di investire, quindi di indebitarsi per innovarsi, proprio nei momenti di crisi e se non può farlo rischia di avvitarsi in una spirale che la porterebbe al fallimento (guarda caso è quello che sta succedendo ed è successo a tantissime imprese italiane…).
Un esempio su tutti gli USA che negli anni successivi ad una gravissima crisi che ha avuto l’apice con il fallimento di Lehmann Brothers, ha messo in atto il cosiddetto Quantitative Easing, vale a dire l’immissione di denaro nei mercati per 85 miliardi ogni mese per sostenere i titoli e la loro moneta, ed è stato mantenuto fino a quando la disoccupazione non fosse scesa sotto il 6,5%. Oltre all’occupazione i benefici si sono avuti in tutti gli altri indicatori economici.
Purtroppo da noi in Europa tali misure sono partite in forte ritardo e all’inizio si è cercato di utilizzare altri strumenti che spesso si sono rivelati in tutto o in parte inefficaci. Oggi ne paghiamo le conseguenze.
Un altro argomento interessante è la riduzione, al di sotto del 60%, in 20 anni, del rapporto debito/PIL. Questo obiettivo è molto interessante, perchè molti politici, e non, lo stanno usando come argomentazione per tirare acqua ai propri mulini…
Beppe Grillo, in un post sul suo blog del 9 marzo 2014, ha scritto che il Movimento 5 Stelle andrà a cancellare il Fiscal Compact, che «in mancanza di una fortissima crescita taglierebbe la spesa pubblica dai 40 ai 50 miliardi all’anno per vent’anni». In tanti hanno dichiarato la stessa cosa, negli ultimi mesi. Altri partiti italiani della destra, vedi Lega Nord e Fratelli d’Italia, si sono allineati dichiarandosi contrari al trattato.
Ma il Fiscal Compact non va ad imporre nessun taglio della spesa pubblica e tantomeno obbliga l’Italia a fare tagli anche solo vicini ai 50 miliardi all’anno.
Ciò che il fiscal compact impone è una riduzione di un rapporto, quello calcolato tra debito pubblico e PIL. Possiamo agire sul numeratore, riducendo il debito pubblico, quindi facendo tagli alla spesa ma anche sul denominatore, aumentando il PIL e questo non comporterebbe neanche un euro di taglio.
Inoltre, nel calcolo viene considerato il PIL nominale e non quello reale, vale a dire il PIL reale più l’inflazione. Questo apre uno scenario che permette una riduzione, a volte, automatica del debito e dell’aumento del PIL.
Infatti in una situazione “normale” le cifre di cui si parla sono sostanzialmente basse. Ipotizzando un debito al 120% del PIL e un sostanziale pareggio di bilancio, è sufficiente che il PIL nominale (PIL + inflazione) cresca del 2,5%.
La BCE sta cercando di mantenere l’inflazione al 2%, permettendo di aumentare il valore nominale del PIL di ogni paese del 2%, appunto. Ipotizzando un aumento del PIL dello 0,50% al netto dell’inflazione (reale) potrebbe non essere necessario agire sul numeratore, cioè effettuare tagli alla spesa per ripagare il debito pubblico ma lavorare per incrementare il PIL con misure per la crescita (aumento del denominatore).
L’inflazione: questo è un altro problema perchè, non solo potrebbe non avvicinarsi al 2%, un valore fisiologico in una economia sana ma si teme che si possa entrare in una fase di deflazione.
Questo simpatico grafico intereattivo di Reuters chiarisce come l’equilibrio tra debito e PIL sotto il 60% dipenda da molti fattori che si intersecano tra loro.
A presto.
Andrea.
Papà di Alessandro e Jacopo, marito di Simona, abito a Porto S.Elpidio. Aiuto Imprenditori e Professionisti a proteggere la loro ricchezza. Lo faccio attraverso una attenta e costante analisi di tutto il patrimonio finanziario, immobiliare e di impresa, compresi i rischi NON finanziari.
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